di Luca De Fraia, da Repubblica.it del 27/5/2015
Il Consiglio europeo dei ministri degli esteri e dello sviluppo si è riunito ieri, martedì 26 maggio, per preparare la conferenza che si svolgerà ad Addis Abeba il prossimo luglio. È lì che il mondo prenderà decisioni a proposito dei finanziamenti da destinare allo sviluppo. Le risoluzioni annunciate alla fine del Consiglio danno ragione alle voci preoccupate che si sono levate in queste settimane, con in prima fila CONCORD Italia, la piattaforma europea per la solidarietà internazionale, che aveva rivolto un appello ai governi per nuovi impegni all’altezza delle sfide.
Stiamo parlando di una nuova agenda di impegni internazionali per battere la povertà. Il 2015, per la comunità internazionale, è soprattutto il momento di tirare le somme sugli impegni presi in occasione del Millennium Summit del 2000, poi tradotti negli obiettivi dello sviluppo del millennio, la cui cifra essenziale era la riduzione della povertà e della fame.
Si parla quindi di agenda post 2015 e di obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Le ambizioni sono molte: eliminare la povertà entro il 2030 e creare le condizioni per uno sviluppo sostenibile sotto il punto di vista sociale, economico e ambientale. Fra le principali parole d’ordine, compaiono la lotta alle ineguaglianze e l’universalità, che in questo caso vuol dire che questi obiettivi riguardano anche noi italiani.
Il grande momento però sarà a New York, alla conferenza delle Nazioni Unite che si terrà a settembre e che dovrà adottare l’agenda per lo sviluppo sostenibile. Ma una tappa essenziale sarà proprio la conferenza di Addis Abeba per la finanza dedicata allo sviluppo: si tratta quindi di discutere del motore che farà girare la macchina e che dovrebbe portarci a un mondo migliore. Sì, perché al fondo si tratta di questo: un traguardo da raggiungere entro i prossimi quindici anni.
L’importanza di questa tappa di avvicinamento nella capitale etiope è ben chiara a tutti; è un fatto noto che una buona parte degli Stati delle Nazioni Unite hanno voluto che la conferenza di Addis Abeba si svolgesse prima dell’adozione dell’agenda post 2015, con buona pace dei Paesi più ricchi, proprio per verificare le intenzioni della comunità internazionale.
Attenzione, siamo andati ben oltre lo scenario tradizionale di una conferenza internazionale che deve decidere quanti aiuti bisogna dare ai Paesi più poveri. Il gioco si è fatto più complesso e si articola attorno a due elementi: quello della responsabilità, ovvero che ogni Paese è responsabile delle proprie politiche di sviluppo, e quello della ownership, parola che contiene il concetto secondo il quale ciascuno a casa propria deve poter decidere le proprie politiche, incluse quelle per lo sviluppo.
Responsabilità e ownership dovrebbero rimanere in armonia; proprio fra questi due elementi dovremmo collocare il sostegno che la comunità internazionale può offrire agli sforzi nazionali. Ma è qui che la situazione si complica, visto che la comunità internazionale sembra incerta e piuttosto interessata ad affermare ricette di sapore ideologico, a partire da un ricorrente riferimento al ruolo del settore business nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
L’agenda ufficiale della conferenza di Addis Abeba ricalca per molti aspetti quella della conferenza che ha segnato il punto di partenza di questa agenda, ovvero Monterrey nel 2002, quando 189 paesi riuniti nella città californiana si accordarono per impostare la lotta alla povertà globale. Ci fu così un patto, secondo il quale i paesi ricchi s’impegnarono ad aumentare e rendere più efficace l’auto ai poveri, ad alleviare i debiti contratti, ad aprire alle importazioni i propri mercati; i paesi poveri s’impegnavano invece a rafforzare i loro governi o regimi per combattere la corruzione, migliorare l’uso degli aiuti ricevuti, creare un clima migliore per gli investimenti. Poco o nulla di tutto questo è però finora avvenuto.
Ci sono quindi molti capitoli, dai nomi un po’ difficili: mobilitazione delle risorse domestiche (tasse); finanza internazionale per lo sviluppo (aiuti); risorse private (investimenti); debito; commercio; trasferimento di tecnologie; questioni sistemiche (riforma delle istituzioni finanziarie internazionali). Il negoziato verso Addis Abeba è già avviato e le bozze del documento conclusivo sono state condivise e commentate. Proprio per questo motivo ci si aspettava dall’Unione Europea una posizione all’altezza.
Ma l’UE sembra piuttosto ripiegata su una valutazione celebrativa dei risultati del passato; ad esempio, quante volte abbiamo sentito citare il fatto che l’Europa rappresenta il più grande blocco di Paesi donatori in termini di aiuto. Peccato che questa autocitazione ignori che siamo ben lontani dal raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati: forse per la fine dell’anno gli aiuti europei raggiungeranno forse lo 0,45% su base continentale, contro l’atteso 0,7%, con un buco di circa 40 miliardi di euro all’anno, che si traduce in mancato sviluppo e vite perse.
Da Consiglio europeo del 26 maggio non sono venuti risultati incoraggianti. Nessun impegno preciso per colmare il buco verso lo 0,7%: ci si è limitati a un riferimento all’implementazione dell’agenda post 2015, senza una data precisa. Ma anche quando nuove risorse non sono necessarie non c’è stato progresso: nessun impegno per un rapido miglioramento della qualità degli aiuti, secondo i principi dell’efficacia; nessun impegno per rafforzare la cooperazione in materia di tasse o in materia di cancellazione del debito sotto l’egida delle Nazioni Unite; nessuna novità in tema di regole certe per un ruolo del settore business per lo sviluppo sostenibile. Dobbiamo chiederci, e rivolgere ai nostri governi, una domanda: quali sono gli impegni concreti e verificabili dell’Europa per la finanza dello sviluppo? Per il momento è difficile trovare la risposta.